La struttura dell’inconscio

 1916

1. Distinzione tra inconscio personale ed inconscio impersonale

Dal tempo in cui le nostre opinioni si sono differenziate da quelle della scuola viennese a proposito del principio informatore della psicoanalisi — cioè se si tratta di sessualità o semplicemente di energia — i nostri concetti hanno subito una considerevole evoluzione. Dopo che si potè eliminare il pregiudizio su questo principio, ammettendone uno puramente astratto, di cui non avevamo stabilito a priori la natura, i nostri interessi si focalizzarono sul concetto di inconscio.

Quasi tutti sanno che, secondo le vedute di Freud, i contenuti dell'inconscio sono riducibili a tendenze infantili, che sono state rimosse a causa della loro incompatibilità. La rimozione è un processo che si inizia fin dalla prima infanzia sotto l'influsso morale dell'ambiente e prosegue per tutta la vita. Grazie all'analisi, le rimozioni vengono eliminate e i desideri rimossi tornano ad essere coscienti. Teoricamente l'inconscio dovrebbe rimanere svuotato e, in un certo senso, annullato, mentre, in realtà, la produzione di fantasie contenenti desideri sessuali di tipo infantile continua fino alla vecchiaia.

Secondo questa teoria, l'inconscio conterrebbe soltanto quegli elementi della personalità che potrebbero benissimo essere coscienti, ma che sono stati repressi dall'educazione. Ne consegue che il contenuto essenziale dell'inconscio sarebbe di carattere personale. Sebbene, sotto un certo aspetto, le tendenze infantili dell'inconscio siano le più cospicue, sarebbe tuttavia sbagliato valutare l'inconscio esclusivamente con questo metro. L'inconscio ha anche un altro aspetto: in esso non si trovano soltanto contenuti rimossi, ma anche tutti i materiali psichici che si trovano al di sotto della soglia della coscienza. È impossibile spiegare la natura psichica di tutto questo materiale basandosi sul principio della rimozione, perché, se così fosse, l'eliminazione delle rimozioni dovrebbe conferire a un individuo una memoria prodigiosa che, d'ora in avanti, non dimenticherebbe più niente.

Indubbiamente la rimozione ha la sua importanza, ma non è il solo fattore. Se quella che chiamiamo cattiva memoria fosse sempre e soltanto la conseguenza di una rimozione, coloro che sono dotati di una memoria eccellente non dovrebbero mai avere delle rimozioni e, quindi, non dovrebbero mai essere nevrotici, mentre l'esperienza dimostra che le cose non stanno affatto così. Vi sono dei casi di memoria eccezionalmente cattiva nei quali la causa principale è chiaramente la rimozione; però sono piuttosto rari.

Quindi noi affermiamo che, oltre al materiale rimosso, l'inconscio contiene tutte quelle componenti psichiche che sono scese al di sotto della soglia, come pure le senso-percezioni subliminali. Inoltre sappiamo, grazie a una ricca esperienza e anche in base a ragionamenti teorici, che, oltre a ciò, l'inconscio contiene tutto il materiale che non ha ancora raggiunto la soglia della coscienza. Sono questi i germi di tutti i futuri contenuti coscienti. Similmente, abbiamo molte buone ragioni per pensare che l'inconscio non sia mai in quiete, nel senso di essere inattivo, ma sia probabilmente impegnato senza sosta a combinare variamente le cosiddette fantasie inconsce. Questa attività deve essere relativamente autonoma solo nei casi patologici, mentre in condizioni normali è coordinata alla coscienza da un rapporto di compensazione.

Si deve credere che tutti questi contenuti siano di natura personale, in quanto sono acquisiti durante la vita dell'individuo. Poiché la vita è limitata, anche il numero di contenuti acquisiti dall'inconscio deve essere limitato. Così stando le cose, dovrebbe essere possibile svuotare l'inconscio mediante l'analisi, o facendo un completo inventario dei contenuti inconsci, partendo dal presupposto che l'inconscio non può produrre niente di più di quel che è stato conosciuto e assimi- ato dalla coscienza. Dovremmo anche presumere, come si è detto, che, se si potesse fermare la discesa dei contenuti coscienti verso l'inconscio, sopprimendo la rimozione, l'attività inconscia rimarrebbe paralizzata. Questo è possibile soltanto entro limiti molto ristretti, come ci insegna l'esperienza.

Noi incitiamo i pazienti a cercare di trattenere i contenuti rimossi, che sono stati riassociati alla coscienza, e ad assimilarli nel loro schema di vita. Ma questo procedimento — come ce ne possiamo convincere di giorno in giorno — non esercita alcuna impressione sull'inconscio che continua tranquillamente a produrre evidentemente le stesse fantasie sessuali infantili che, secondo la vecchia teoria, dovrebbero essere la conseguenza di rimozioni personali. In questi casi, se l'analisi sarà proseguita sistematicamente, si scoprirà a poco a poco un miscuglio di desideri fantastici, non compatibili, dei più strani generi. Oltre a tutte le perversioni sessuali, si osserva ogni tipo di delinquenza concepibile, e anche le più nobili aspirazioni e le più elevate idee che si possano immaginare, la cui esistenza nel soggetto dell'analisi era assolutamente insospettabile.

A titolo di esempio, desidero ricordare il caso di un soggetto schizofrenico di Maeder, che era solito dire che il mondo era il suo libro illustrato. Costui era un povero apprendista fabbro, ammalatosi in età assai giovanile, che non aveva mai avuto il dono di una notevole intelligenza. Questo concetto, ossia che il mondo era il suo libro illustrato, le cui pagine egli sfogliava quando si guardava intorno, è assolutamente identico al «mondo come volontà e rappresentazione» di Schopenhauer, pur essendo espresso con un linguaggio figurato primitivo. La sua visione è altrettanto sublime quanto quella di Schopenhauer, con la sola differenza che nel malato essa rimaneva allo stato embrionale, mentre in Schopenhauer la medesima idea si è trasformata da visione in astrazione ed è stata espressa in un linguaggio universalmente valido.

Sarebbe assolutamente errato supporre che tale visione avesse carattere e valore personali, perché questo conferirebbe al paziente la dignità di un filosofo. Ma, come ho già accennato, filosofo è solo colui che può trasfondere una visione tratta dalla natura in un'idea astratta, traducendola quindi in un linguaggio universalmente valido. La concezione filosofica di Schopenhauer rappresenta un valore personale, mentre la visione del paziente è un valore impersonale, un prodotto puramente naturale il cui diritto di proprietà può essere acquisito soltanto da colui che ne fa un'astrazione, trasformandolo in un'idea ed esprimendolo in termini universali. Però sarebbe uno sbaglio attribuire al filosofo, esagerando il valore della sua opera, anche il merito di aver effettivamente creato o inventato la visione in sé. Si tratta di un'idea primordiale che nasce in modo del tutto spontaneo nel filosofo e che fa semplicemente parte del patrimonio comune dell'umanità, di cui, in linea di principio, spetta una porzione a ognuno. Le mele d'oro cadono dallo stesso albero, sia che vengano raccolte da un apprendista fabbro o da Schopenhauer.

Queste idee primordiali, di cui ho dato moltissimi esempi nel mio lavoro sulla libido, impongono di fare, a proposito del materiale inconscio, una distinzione di tipo totalmente diverso di quella tra «preconscio» e «inconscio» o tra «subconscio» e «inconscio». Qui non occorre che giustifichi questa distinzione. Queste concezioni hanno un loro valore specifico per cui sono degne di ulteriore studio, pur considerandole semplicemente come punti di vista. Anche la distinzione fondamentale, che mi è stata imposta dall'esperienza, non pretende di essere nulla di più. Da quanto precede, dovrebbe essere chiaro che nell'inconscio va distinto uno strato definibile inconscio personale. I contenuti di questo strato sono di natura personale, in quanto hanno in parte il carattere di acquisizioni tratte dalla vita dell'individuo, in parte il carattere di fattori psicologici che potrebbero essere anche coscienti.

Sarà facile intendere come gli elementi psicologici incompatibili tendano a essere rimossi e quindi a diventare inconsci. Ma d'altro canto, questo comporta la possibilità di rendere coscienti i contenuti rimossi e mantenerli tali dopo che sono stati individuati. Riconosciamo in essi il carattere di contenuti personali in conseguenza dei loro effetti o delle loro manifestazioni parziali, o perché la loro origine può essere individuata nel nostro passato. Sono componenti integrali della personalità, rientrano nel suo inventario, e la loro perdita per la coscienza determina una menomazione sotto questo o quell'aspetto. Questa menomazione non ha tanto il carattere, psicologico, della lesione organica o del difetto congenito, quanto quello di una deficienza che provoca un senso di perturbamento morale. La sensazione ai inferiorità morale sta sempre a indicare che l'elemento mancante è tale che, a giudicare da questo sentimento che gli si accompagna, non dovrebbe essere assente in condizioni morali, oppure dovrebbe diventare cosciente se il soggetto facesse uno sforzo sufficiente. L'inferiorità morale non proviene dal cozzo contro la legge morale accettata comunemente, che è in certo senso arbitraria, ma da un conflitto con la stessa personalità dell'individuo che, per esigenze di equilibrio psichico, pretende che il deficit venga colmato. La sensazione di inferiorità morale, tutte le volte che viene a manifestarsi, indica non soltanto il bisogno di assimilare una componente inconscia, ma anche la possibilità effettiva di questa assimilazione. In ultima analisi, sono le qualità morali di un uomo che gli impongono, o facendogli riconoscere direttamente la necessità o facendogliela sentire indirettamente tramite le sofferenze della nevrosi, di assimilare il suo sé inconscio mantenendolo in piena coscienza. Chiunque avanzi sul cammino dall'autorealizzazione deve inevitabilmente riportare alla coscienza i contenuti del suo inconscio personale, allargando in tal modo in grande misura il campo della sua personalità.

2. Fenomeni conseguenti all'assimilazione dell'inconscio

Il processo di assimilazione dell'inconscio determina alcuni fenomeni molto importanti. In taluni pazienti produce un aumento, inconfondibile e spesso sgradevole, della fiducia in sé stessi e dell'autostima. Questi soggetti sono pieni di sé, sanno tutto, si figurano di essere pienamente informati di tutto ciò che riguarda il loro inconscio e sono persuasi di conoscere alla perfezione tutto ciò che proviene dall'inconscio. A ogni colloquio col medico si gonfiano sempre di più. Altri, invece, si sentono sempre più schiacciati sotto il peso dei contenuti dell'inconscio, perdono la fiducia in sé stessi e si abbandonano con cupa rassegnazione a tutte le cose straordinarie che l'inconscio produce. I primi, rigonfi del senso della loro propria importanza, si assumono una responsabilità nei confronti dell'inconscio che va troppo oltre, superando ogni limite ragionevole. Gli altri finiscono con l'abbandonare ogni senso di responsabilità, sopraffatti da un senso di impotenza dell'Io contro il destino che l'inconscio impone loro.

Se analizziamo più a fondo queste due modalità di reazione scopriamo che l'ottimismo e la fiducia dei primi cela un profondo senso di impotenza, nei cui confronti l'ottimismo cosciente funge da elemento compensatore, però con scarso successo. Invece, il rassegnato pessimismo degli altri maschera un'ardita volontà di potenza che, con la sua presunzione, supera di molto l'ottimismo cosciente del primo tipo.

Adler adopera il termine «somiglianza con Dio» per indicare alcune caratteristiche fondamentali dell'atteggiamento psicologico di potenza dei nevrotici. Anche io prendo in prestito dal Faust questa espressione, però le do qui un senso più simile a quello deducibile dal notissimo passo in cui Mefistofele scrive nell'album dello studentello «Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum» e poi aggiunge fra sé: «Segui il vecchio insegnamento di mio cugino il Serpente. Un bel giorno, malgrado la tua somiglianza con Dio, avrai da tremare».

La somiglianza con Dio non è certo un concetto scientifico, per quanto caratterizzi perfettamente lo stato psicologico di cui qui si tratta. Resta ancora da vedere donde nasca questo atteggiamento e perché gli spetti il nome di somiglianza con Dio. Come è indicato dal termine stesso, l'anormalità della condizione del paziente consiste nel fatto che egli si attribuisce qualità o valori che, ovviamente, non gli competono, perché essere «simili a Dio» vuol dire essere simili a uno spirito superiore allo spirito dell'uomo.

Se, tenendo presente le mie finalità psicologiche, eseguiamo la dissezione di questo concetto della somiglianza con Dio, osserviamo che questa espressione non comprende soltanto il fenomeno dinamico, del quale ho parlato nel mio libro sulla libido, ma anche una determinata funzione psichica avente un carattere collettivo sovraordinato alla mentalità individuale. Come l'individuo non è assolutamente un essere unico e separato dagli altri, ma è anche un essere sociale, così la psiche umana non è un fenomeno chiuso in sé e meramente individuale, ma è anche un fenomeno collettivo. E come certe funzioni o istinti sociali si oppongono agli interessi egocentrici dell'individuo, così determinate funzioni o tendenze della psiche umana si oppongono, con la loro natura collettiva, alle funzioni psichiche personali. La ragione di questo sta nel fatto che l'uomo è nato con un cervello fortemente differenziato, che lo rende capace di un'ampia gamma di funzioni psichiche che non si sono sviluppate con l'ontogenesi né sono state acquisite. Ma, dato che l'evoluzione del cervello umano è uniforme in tutti, la funzionalità psichica, resasi in tal modo possibile, è collettiva e universale.

Con ciò si spiega, fra l'altro, il fatto interessante che i processi inconsci di popoli e razze lontanissimi fra di loro rivelano un'impressionante corrispondenza che si manifesta anche nelle straordinarie, ma sicure, analogie tra le forme e i motivi dei miti autoctoni.

L'universale rassomiglianza dei cervelli umani comporta la possibilità universale di un funzionamento psichico uniforme. Tale funzionalità è la psiche collettiva, che può essere divisa in mente collettiva e anima collettiva. Dato che sussistono delle differenze corrispondenti alla razza, alla tribù e persino alla famiglia, vi è anche una psiche collettiva limitata alla razza, alla tribù e alla famiglia, cne sovrasta la psiche collettiva «universale». Secondo un'espressione di Pierre Janet, la psiche collettiva comprende le parties inférieures delle funzioni psichiche, quelle parti indistruttibili e profondamente radicate della psiche individuale che, essendo ereditarie, si riscontrano ovunque e sono, quindi impersonali e sovrapersonali. La coscienza, insieme con l'inconscio personale, costituisce le parties supérieures della funzione psichica, quelle parti, cioè, che si sono sviluppate nel corso dell ontogenesi e sono state acquistate in conseguenza dello sviluppo individuale.

Quindi, chi annette alla propria coscienza il retaggio inconscio della psiche collettiva mescolandolo con quanto si è formato in lui nel corso del suo sviluppo ontogenetico, dilata l'ambito della propria coscienza in modo illegittimo e ne subisce le conseguenze. Dato che la psiche collettiva comprende le parties inférieures delle funzioni mentali e forma così a base di tutte le personalità, ne consegue che la psiche collettiva coarta e svaluta quella individuale. Questo fenomeno si rivela nel soffocamento della fiducia in sé o nell'accrescimento inconscio dell'importanza dell'ego fino ad arrivare a una volontà di potenza di grado patologico. D'altro canto, siccome la psiche collettiva è sopraordinata alla personalità, essendo la matrice di tutte le personalità individuali e di quella funzionalità psichica che è comune a tutti, se entra a far parte della personalità cosciente produce un'ipertrofia della fiducia in sé che, a sua volta, sarà compensata da un notevole senso di inferiorità a livello inconscio.

Se, attraverso l'assimilazione dell'inconscio, commetteremo l'errore di introdurre la psiche collettiva nel complesso delle funzioni mentali individuali, ne seguirà inevitabilmente la dissoluzione della personalità nelle coppie di contrari che la costituiscono. Prescindendo dalla coppia di contrari già enunciata — megalomania e senso di infenorità — che si fa sentire tanto dolorosamente nella nevrosi, ve ne sono molte altre, tra le quali sceglierò solo la coppia di contrari specificamente morali, ossia il bene e il male (scientes bonum et malum!). La formazione di questa coppia va di pari passo con l'aumento o la riduzione della fiducia in sé. Le virtù e i vizi propri dell'umanità rientrano, come tutto il resto, nella psiche collettiva. Un individuo ascriverà tra i suoi meriti personali una virtù collettiva, mentre un altro considererà come una colpa personale un vizio collettivo. Tutti e due questi atteggiamenti sono illusori quanto la megalomania e il senso di inferiorità, perché le virtù immaginarie e i difetti immaginari appartengono semplicemente alla coppia di contrari morali che rientrano nella psiche collettiva e che sono diventati percepibili, cioè coscienti, tramite un processo artificiale.

I primitivi dimostrano chiaramente fino a che punto queste coppie di contrari esistano nella psiche collettiva: un osservatore ne esalterà le altissime virtù, un altro darà della stessa tribù un giudizio assolutamente negativo. Per il primitivo, nel quale la differenziazione personale è tuttora in germe, entrambi i giudizi sono veri perché la sua mentalità è essenzialmente collettiva. Il primitivo si identifica ancora, in maggiore o minor misura, con la psiche collettiva e per tal ragione è equamente partecipe delle virtù e dei vizi di tutti senza alcuna attribuzione personale e senza contraddizione interiore. La contraddizione insorge soltanto quando si inizia lo sviluppo della mente personale e quando la ragione scopre l'inconciliabilità dei contrari. Conseguenza di questa scoperta è il conflitto della rimozione. Noi vogliamo essere buoni e quindi vogliamo sopprimere il male e con questo finisce il paradiso della psiche collettiva.

La rimozione della psiche collettiva è stata assolutamente necessaria per lo sviluppo della personalità, dato che psicologia collettiva e psicologia personale entro certi limiti si negano reciprocamente. La storia ci insegna che tutte le volte che un atteggiamento psicologico assume valore collettivo, cominciano a pullulare gli scismi. Il fenomeno assume la massima evidenza nella storia delle religioni. Un atteggiamento collettivo, anche se necessario, rappresenta sempre una minaccia per l'individuo. È pericoloso, in quanto tende a rintuzzare e soffocare ogni differenziazione personale. Questa caratteristica gli proviene dalla psiche collettiva che è, essa stessa, il prodotto di una differenziazione psicologica dei fortissimi istinti gregari dell'uomo. Il pensiero e il sentimento collettivi e gli sforzi collettivi sono relativamente facili se paragonati alla funzionalità e al rendimento del singolo; da questo può derivare, anche troppo facilmente, una pericolosa minaccia allo sviluppo della personalità attraverso un affievolimento della funzionalità psichica individuale. Il danno sofferto dalla personalità viene compensato — in psicologia tutto trova una compensazione — da un'unione coatta e un'identificazione inconscia con la psiche collettiva.

Ora esiste il pericolo che, nell'analisi dell'inconscio, la psiche collettiva e quella personale si fondano insieme con risultati, come ho preavvertito, quanto mai infelici. Questi risultati sono nocivi sia alla stessa vita del paziente, sia anche per quelli che Io circondano, se egli ha la possibilità di esercitare un potere qualsiasi sull'ambiente. In conseguenza della sua identificazione con la psiche collettiva, il paziente non mancherà di cercare di imporre agli altri le esigenze del suo inconscio, perché tale identificazione comporta immancabilmente una sensazione di validità universale («somiglianza con Dio») che ignora completamente le differenze dell'altrui psicologia.

I peggiori abusi in questo senso sono evitabili ove si concepisca e intenda chiaramente il fatto che vi sono tipi psicologici con un diverso orientamento, la cui psicologia non può essere modellata a forza sullo stampo di un altro tipo. Per un tipo è abbastanza difficile comprendere integralmente un tipo diverso, per cui l'assoluta comprensione di un'altra personalità è del tutto impossibile. Un giusto riguardo per l'altrui individualità non è soltanto consigliabile, ma è assolutamente essenziale nell'analisi, allo scopo di evitare che lo sviluppo della personalità del paziente rimanga soffocato. Bisogna rilevare che, per un certo tipo di individuo, dimostrare rispetto per l'altrui personalità significa assicurare a quest'ultima libertà d'azione, mentre per un altro tipo significa assicurare la libertà del pensiero. Nell'analisi occorre rispettare entrambe le libertà nei limiti consentiti dall'autoconservazione dell'analista. Un eccessivo desiderio di comprendere e di illuminare è tanto inutile e nocivo quanto la mancanza di comprensione.

Gli istinti collettivi e le forme di pensiero e di sentimento, tratti alla luce dell'analisi dell'inconscio, rappresentano per la personalità cosciente un'acquisizione che non può essere assimilata integralmente senza danno. Quindi, nel corso del trattamento pratico, è della più grande importanza non perdere mai di vista il fine ultimo che è lo sviluppo dell'individuo. Infatti, se la psiche collettiva viene intesa come un possesso personale dell'individuo o come un fardello personale, ne conseguirà una deformazione o un sovraccarico della personalità molto difficile a dominarsi. Pertanto è assolutamente indispensabile fare una netta distinzione tra inconscio personale e contenuti della psiche collettiva. Non è affatto una distinzione facile perché l'elemento personale scaturisce dalla psiche collettiva alla quale resta intimamente legato, per cui è difficile definire con precisione quali contenuti siano personali e quali collettivi.

Per esempio, non vi è dubbio che i simbolismi arcaici, che ricorrono di frequente nelle fantasie e nei sogni, sono elementi collettivi. Tutti gli istinti fondamentali e le modalità elementari del pensiero sono collettive. Tutte le cose che gli uomini concordano nel considerare come universali sono collettive, come pure è collettivo tutto ciò che è capito, osservato, detto e fatto da tutti. Uno studio più approfondito ci lascerà sempre stupiti nel constatare quanta parte della cosiddetta psicologia individuale è in realtà collettiva. Una così grande parte, infatti, che le caratteristiche individuali ne rimangono totalmente oscurate. Però, siccome l'individuazione è una necessità psicologica imprescindibile, possiamo dedurre da questa preponderanza del collettivo di quante cure si debba circondare questa delicata pianta, che è l'individuabilità, se non si vuole che venga completamente soffocata.

Gli esseri umani sono dotati di una facoltà che, per quanto sia sommamente utile a scopi collettivi, è assolutamente perniciosa per il processo di individuazione: si tratta della facoltà imitativa. La psicologia collettiva non può prescindere dall'imitazione, perché, in mancanza di essa, tutte le organizzazioni di massa, lo stato e l'ordine sociale, sarebbero impossibili. In effetti, la società è organizzata non tanto dalla legge quanto dalla tendenza all'imitazione che porta con sé la suggestionabilità, la suggestione e il contagio psichico. Vediamo quotidianamente come la gente si valga, o meglio abusi, del meccanismo dell'imitazione a scopo di distinzione personale: costoro si accontentano di scimmiottare qualche personalità eminente, qualche caratteristica o modalità di comportamento che faccia impressione, ottenendo in tal modo una distinzione puramente esteriore dalla cerchia entro la quale si muovono.

Quasi si potrebbe dire che, come punizione di questo modo di fare, l'uniformità della loro psiche con quella dei vicini, già abbastanza sostanziale, si accentua maggiormente fino a trasformarsi in un asservimento inconscio all'ambiente. Per lo più, questi artificiosi tentativi di differenziazione finiscono con l'irrigidirsi in una posa e l'imitatore rimane sullo stesso livello in cui si è sempre trovato, solo parecchio più sterile che in precedenza. Per scoprire qual è il vero elemento individuale in noi, si rende necessana una profonda riflessione, e, all'improvviso, ci rendiamo conto di quali immense difficoltà presenti la scoperta dell'individualità.

3. La «persona» come frammento della psiche collettiva

Siamo ora arrivati a un problema che, trascurato, potrebbe determinare la peggiore confusione. Si ricorderà che nell'analisi dell'inconscio personale le prime cose da riportare alla coscienza sono i contenuti personali e io proporrei di dare il nome di inconscio personale a questi contenuti che sono stati rimossi, ma sono suscettibili di ritornare a essere coscienti. Ho anche dimostrato che l'annessione alla coscienza degli strati più profondi dell'inconscio, che ho definito inconscio impersonale, determina una dilatazione della personalità che porta alla condizione di «somiglianza con Dio». Si perviene a questo stato semplicemente proseguendo nel lavoro analitico che ha già reintegrato nella coscienza le parti rimosse della personalità. Ma, continuando l'analisi, aggiungiamo alla coscienza talune caratteristiche generali dell'umanità, essenziali e impersonali, provocando in tal modo la situazione che ho descritto, considerabile come uno dei risultati negativi dell'analisi.

Sotto questo punto di vista, la personalità cosciente ci appare come un frammento più o meno arbitrario della psiche collettiva. Essa deve la sua esistenza semplicemente al fatto che non ha, fin dal principio, alcuna coscienza di queste caratteristiche fondamentali e universali dell'umanità e per di più ha rimosso, più o meno arbitrariamente, degli elementi psichici o caratterologici, dei quali potrebbe anche essere cosciente, allo scopo di isolare quel frammento di psiche collettiva che chiamiamo persona.

Il termine persona è un'espressione assai appropriata, perché in origine rappresentava la maschera portata dagli attori per indicare la parte che recitavano. Se ci sforziamo di tirare una netta linea ai demarcazione tra il materiale psichico da considerarsi personale e il materiale impersonale, ci imbattiamo ben presto nel più grande dilemma, perché, per definizione, dobbiamo dire dei contenuti della persona ciò che abbiamo detto dei contenuti impersonali, cioè che sono collettivi. Solo per il fatto che la persona è  un frammento più o meno arbitrario e casuale della psiche collettiva, possiamo cadere nell'errore di considerarla in toto come un elemento individuale. Essa, come vuole il suo stesso nome, altro non è che la maschera portata dalla psiche collettiva, maschera che simula un'individualità, facendo credere agli altri e a sé di essere un individuo, mentre invece si tratta della recitazione di una parte attraverso la quale si esprime la psiche collettiva.

Quando analizziamo la persona le strappiamo la maschera e scopriamo che quello che sembrava individuale, alla base è collettivo. Dunque noi riconduciamo il «piccolo Dio di questo mondo» alla sua origine nel Dio universale, personificazione della psiche collettiva. Se riduciamo la personalità all'istinto fondamentale della sessualità, come fa Freud, o alla elementare volontà di potenza dell'ego, come fa Adler, o al principio generale della psiche collettiva che abbraccia tanto il principio freudiano quanto quello adleriano, otteniamo il medesimo risultato: la dissoluzione del personale nel collettivo. Ecco perché, in qualsiasi analisi portata abbastanza avanti, viene un momento in cui il soggetto prova quel sentimento di «somiglianza con Dio» di cui abbiamo già parlato.

Spesso questa condizione è preceduta da sintomi particolarissimi, come sogni in cui il sognatore vola nello spazio come una cometa, o sente di essere la terra, il sole o una stella, oppure ha la sensazione di avere proporzioni immense o microscopiche, ovvero crede di essere morto, di trovarsi in un luogo sconosciuto, di essere estraneo a se stesso, confuso, folle, ecc. Può anche provare delle sensazioni fisiche, come quella di essere troppo grosso per la pelle che lo contiene o troppo grasso; può avere sensazioni ipnagogiche di precipitare o risalire incessantemente; può sentire che il corpo si sta espandendo; può avere sensazioni vertiginose. Psicologicamente questo stato è caratterizzato da un particolare disorientamento nei confronti della propria personalità; il soggetto non sa più chi è oppure ha la certezza assoluta di essere effettivamente quel che gli è sembrato di diventare. Sintomi comuni sono l'intolleranza, il dogmatismo, la presunzione (oppure la svalutazione di sé stessi) e il disprezzo verso «quelli cne non sono stati analizzati» e per il loro modo di pensare e agire. Abbastanza di frequente ho rilevato in questi soggetti una maggiore tendenza a contrarre malattie fisiche, però solo se godono della loro condizione e vi indugiano troppo a lungo.

Le forze eruttate dalla psiche collettiva portano confusione e cecità mentale. Una conseguenza della dissoluzione della persona è lo scatenamento della fantasia che, evidentemente, è né più né meno che l'attività specifica della psiche collettiva. Questa irruzione di elementi fantastici introduce violentemente nella coscienza materiali e impulsi della cui esistenza non si aveva alcun sospetto. Si scoprono tutti i tesori del pensiero e del sentimento mitologico. Non è sempre facile resistere a impressioni talmente travolgenti. Questa fase va annoverata tra quelle che rappresentano un vero pericolo nel corso dell'analisi, pericolo da non sottovalutarsi.

Si comprenderà facilmente come questa condizione sia talmente insopportabile che l'individuo desidera porvi termine al più presto possibile, dato che la somiglianza con l'alienazione mentale è finanche troppo stretta. Come è noto, la forma più comune di pazzia, la demenza precoce o schizofrenia, consiste essenzialmente nel fatto che l'inconscio espelle e soppianta, in larga misura, le funzioni della mente cosciente. L'inconscio usurpa la funzione del reale e vi sostituisce una propria realtà. I pensieri inconsci diventano udibili sotto forma di voci, oppure sono percepiti come illusioni o allucinazioni corporee, ovvero si manifestano sotto forma di giudizi insensati, ma irremovibili, sostenuti in opposizione alla realtà.

Allorché la persona si dissolve nella psiche collettiva, l'inconscio viene spinto entro la coscienza in un modo simile, ma non identico. L'unica differenza rispetto allo stato di alienazione mentale è che l'inconscio viene portato in superficie mediante l'analisi cosciente; almeno questo è ciò che accade al principio dell'analisi, quando si devono ancora superare forti resistenze di ordine culturale. Più tardi, dopo l'abbattimento di barriere erette nel corso di anni, l'inconscio invade la coscienza spontaneamente e talvolta irrompe nella mente cosciente come una fiumana. In questa fase la somiglianza con l'alienazione mentale è strettissima. Però si tratterrebbe di vera follia solo se i contenuti dell'inconscio diventassero una realtà che prendesse il posto della realtà cosciente; in altri termini, se il soggetto vi prestasse fede senza riserve.

4. Tentativi di svincolare l'individualità dalla psiche collettiva

a. Reintegrazione regressiva della persona

L'insopportabile situazione di identità con la psiche collettiva costringe il paziente, come abbiamo detto, a qualche soluzione radicale. Due vie gli sono aperte per uscire dalla condizione di «somiglianza con Dio». La prima possibilità consiste nel cercare di ristabilire in via regressiva la preesistente persona, tentando di controllare l'inconscio mediante l'applicazione di una teoria che tenda a riportare ai primi principi, per esempio affermando che ci si trova di fronte a una sessualità infantile rimossa e ormai superata da lungo tempo che sarebbe bene fosse sostituita dalla normale funzione sessuale. Questa spiegazione si basa sull'innegabile simbolismo sessuale del linguaggio dell'inconscio e su un'interpretazione concreta di esso. Oppure si può invocare la teoria della potenza, fondandosi sulla tendenza, egualmente innegabile, dell'inconscio verso la potenza, e interpretare il sentimento di «somiglianza con Dio» quale «protesta virile», come un desiderio infantile di dominio e di sicurezza. Oppure si può spiegare l'inconscio secondo i termini della psicologia arcaica dei primitivi, spiegazione che non soltanto includerebbe in sé entrambi i fattori (simbolismo sessuale e sforzo per conseguire il potere che rende «simili a Dio») evidenziabili nel materiale inconscio, ma parrebbe anche render giustizia ai suoi aspetti religiosi, filosofici e mitologici.

In ogni caso si arriverebbe alla stessa conclusione, cioè al ripudio dell'inconscio quale elemento palesemente inutile, infantile, privo di senso e assolutamente impossibile e anomalo. Dopo tale svalutazione non rimarrebbe che stringersi nelle spalle con rassegnazione. Per il paziente, se vuole seguitare a vivere secondo ragione, non sembra vi sia altra scelta se non quella di ricostruire, il meglio possibile, quel frammento della psiche collettiva che abbiamo chiamato persona, rinunziando tranquillamente all'analisi e cercando di dimenticare, se possibile, di possedere un inconscio. Dovrà aver sempre presenti le parole di Faust: «Abbastanza mi è noto ciò che è racchiuso nell'orbe. Dell'aldilà la vista ci è preclusa, e folle è colui che, stringendo le palpebre, vi si affida e favoleggia di suoi simili viventi al di sopra delle nubi. L'uomo rimanga saldo e indaghi quel che lo circonda quaggiù: a chi gagliardamente opera non è muto il mondo! Che bisogno ha dunque di spaziare nell'eternità? Ciò che comprende, egli già lo possiede; e così si contenti di vivere il suo soggiorno mortale. Se fantasmi lo assalgono, prosegua il suo cammino. E lui, cui non appaga l'attimo fuggente, troverà nell'avanzare la sua gioia e il suo dolore».

Tale soluzione sarebbe ideale se un uomo fosse veramente capace di scuotere da sé l'inconscio, privandolo della libido e rendendolo inattivo, ma l'esperienza ci insegna che non è possibile togliere l'energia all'inconscio: questo rimane attivo, perché non soltanto contiene, ma è esso stesso la sorgente della libido dalla quale affluiscono in noi tutti gli elementi psichici: i sentimenti-pensiero e i pensieri-sentimento, i germi ancora indifferenziati dei pensien e dei sentimenti formali. Quindi è un'illusione credere che, mediante qualche teoria o metodica magica, si possa, alla fine, svuotare l'inconscio della libido e, in tal modo, eliminarlo definitivamente. Ci si può trastullare per un po' in questa illusione, ma viene il giorno in cui si è costretti a dire con Faust: «Ora l'aria è sì piena di fantasmi, che non so come evitarli. Se anche il giorno ci sorride in limpida sensatezza, la notte ci stringe in un tessuto di incubi. Torniamo lieti dalla campagna che si ridesta; gracchia un uccello: che vuol dire? Sventura. Irretiti da mane a sera nella superstizione, vediamo dovunque segni, apparizioni, moniti. Così, spauriti, finiam col restar soli. Cigola sui cardini la porta e nessuno entra. C'è qualcuno qui?

La Cura. A una tal domanda devo rispondere: sì.

Faust. Ma tu, chi sei?

La Cura. Una che è qui.

Faust. Vattene.

La Cura. Sono a casa mia.

Faust, (tra sé) Attenzione, che non ti sfugga uno scongiuro!

La Cura. Il tuo orecchio non mi percepisce, ma in cuore ti rimbombo; in forma varia esercito crudele potere».

L'inconscio non può essere analizzato fino in fondo e ridotto al silenzio. Nessuno può privarlo del suo potere, sia pure per breve tempo. Tentare di farlo col metodo sopraddetto vuol dire ingannare sé stessi e si tratta della solita rimozione sotto diverso aspetto.

Mefistofele lascia aperta una via da non trascurarsi, perché per qualcuno è una possibilità reale. Dice a Faust, inorridito dalla «follia della magia» e che vorrebbe fuggire dalla cucina della strega: «Bene! È un mezzo che non richiede né denaro, né medico, né magia. Recati in campagna, mettiti a zappare e a vangare, costringi te e il tuo pensiero entro una cerchia limitatissima, nutriti ai cibi semplici, vivi come una bestia tra le bestie, e non arrossire di concimare il campo che mieterai».

b. Identificazione con la psiche collettiva

L'altro modo porta all'identificazione con la psiche collettiva, che consiste nell'accettazione della «somiglianza con Dio», ora, però, elevata a sistema. Vale a dire che un individuo è il fortunato depositario della grande verità che attendeva solo di essere scoperta, depositario di quella conoscenza escatologica che è la salvezza dei popoli. Questo atteggiamento non è necessariamente megalomania in forma diretta, bensì la forma più mite e familiare dell'ispirazione profetica e della sete di martirio. Per gli individui dalla mente debole, che, il più delle volte, possiedono una dose di ambizione e di vanità e di ingenuità mal riposta più grande del necessario, il pericolo di cedere a questa tentazione è estremo. L'accesso alla psiche collettiva significa un rinnovamento della vita dell'individuo, indipendentemente dal fatto che questo rinnovamento sia percepito come spiacevole o gradito. Chiunque vorrebbe tenersi stretto questo rinnovamento: l'uno perché accresce in lui la sensazione di esser vivo, l'altro perché gli promette una ricca messe di conoscenze. Quindi, tutti e due, non volendo privarsi dei grandi tesori che giacciono, sepolti nella psiche collettiva, si batteranno con tutti i mezzi a disposizione per conservare questo legame, di recente acquisizione, con la fonte primordiale della vita. L'identificazione parrebbe la via più breve a tale conquista, dato che la dissoluzione della persona nella psiche collettiva invita direttamente l'individuo a tuffarsi in quell'«oceano di divinità», cancellando ogni ricordo in questo abbraccio. Questa tendenza mistica è innata in tutti gli uomini migliori, così come «il desiderio della madre», la nostalgia dell'origine dalla quale deriviamo.

Come ho dimostrato nel mio libro sulla libido, è qui che si trova la radice di quel desiderio regressivo, che Freud concepisce come «fissazione infantile» o «desiderio dell'incesto», valore specifico e necessità specifica che si rivelano esplicitamente nei miti. Sono proprio i più forti e i migliori tra gli uomini, gli eroi, che dànno libero corso al loro desiderio regressivo e si espongono volontariamente al pericolo di essere divorati dal mostro dell'abisso materno. Ma se un uomo è eroe, lo è perché, al rendiconto finale, non si è lasciato divorare dal mostro, ma lo ha soggiogato, e non una volta sola, ma molte volte. Solo la vittoria sulla psiche collettiva ci dà il vero valore — la conquista del tesoro, dell'arma invincibile, del magico talismano, o di qualunque altra cosa che sia desiderabile per il mito. Chiunque si identifichi con la psiche collettiva o, in termini mitologici, si lasci divorare dal mostro, e si annichilisca in esso, arriva al tesoro vigilato dal drago, ma vi arriva contro la sua volontà e con tutto danno per se stesso.

Dunque, l'identificazione con la psiche collettiva è un errore che, sotto altra forma, porta a risultati disastrosi quanto quelli cui porta la prima delle vie, che conduceva alla separazione della persona dalla psiche collettiva.

5. Principi fondamentali del trattamento dell'identificazione con il collettivo

Allo scopo di risolvere il problema posto dall'assimilazione della psiche collettiva e di trovare un sistema terapeutico pratico, dobbiamo innanzi tutto renderci conto dell 'errore dei due procedimenti descritti. Abbiamo visto che né l'uno né l'altro possono condurre a buoni risultati.

Il primo, abbandonando i valori vitali insiti nella psiche collettiva, non fa che ritornare al punto di partenza. Il secondo penetra direttamente nella psiche collettiva, ma pagando lo scotto di perdere quella esistenza umana separata cne sola può rendere sopportabile e soddisfacente la vita. Eppure ognuna di queste vie offre dei valori assoluti che non debbono andare perduti per l'individuo.

Il guaio, dunque, non sta né nella psiche collettiva né in quella individuale, ma nel permettere che si escludano a vicenda. Una disposizione in questo senso è favorita dalla tendenza monistica, che cerca, sempre e ovunque, il principio unico. Il monismo, quale tendenza psicologica generale, è proprio di tutto il pensiero e del sentimento delPuomo civile e proviene dal desiderio di erigere questa o quella funzione a principio supremo. Il tipo introverso conosce soltanto il principio del pensiero, l'estroverso solo quello del sentimento. Questo monismo, o, meglio, monoteismo psicologico, ha il vantaggio della semplicità, ma il difetto dell'unilateralità. Comporta, da un lato, l'esclusione della diversità e della ricca realtà del mondo, ma, dall'altro, la possibilità pratica di realizzare gli ideali del presente e dell'immediato passato, però senza alcuna vera possibilità per l'evoluzione dell'uomo.

La tendenza all'esclusività è non meno favorita dal razionalismo, la cui essenza consiste in un netto diniego di qualunque cosa si opponga al proprio modo di vedere le cose secondo la logica dell'intelletto o secondo quella del sentimento. Il razionalismo è ugualmente monistico e tirannico verso la stessa ragione. Dobbiamo essere particolarmente grati a Bergson che ha spezzato una lancia a favore dell'irrazionale. Per quanto ciò non possa in alcun modo essere gradito alla mentalità scientifica, la psicologia dovrà comunque riconoscere una pluralità di principi e adeguarsi ad essi. E questa l'unica maniera per impedirle di arenarsi. Quindi noi dobbiamo molto al lavoro dell'antesignano William James.

Perciò la scienza deve rinunciare alle sue pretese nei confronti della psicologia individuale. Parlare di scienza della psicologia individuale è già una contraddizione in termini. Soltanto l'elemento collettivo della psicologia dell'individuo può rappresentare un oggetto per la scienza. Infatti l'individuo è, per definizione, un fatto unico che non può essere confrontato con nient'altro. Uno psicologo che professi una psicologia individuale «scientifica» semplicemente nega la psicologia individuale. Espone la sua psicologia individuale al legittimo sospetto di essere semplicemente la sua psicologia personale. La psicologia di ciascun individuo esigerebbe un libro a sé, perché un manuale generale può trattare soltanto la psicologia collettiva.

Queste osservazioni vanno intese come un preambolo a quanto debbo dire sul modo di risolvere detto problema. L'errore capitale di entrambi i procedimenti consiste nell'identificare il soggetto con questo o quell'aspetto della sua psicologia. Questa è tanto individuale quanto collettiva, però non nel senso che l'individuale debba essere assorbito nel collettivo né il collettivo nell'individuale. Dobbiamo tener rigorosamente separato il concetto di individuale da quello di persona perché quest'ultima può dissolversi completamente nel collettivo, mentre l'individuale non può mai dissolversi nel collettivo né mai identificarsi con esso. È per questo che l'identificazione con il collettivo o la volontaria separazione da esso sono ugualmente sinonimo di malattia.

Come ho già fatto notare, l'individualità si rivela essenzialmente nella particolare scelta di quegli elementi della psiche collettiva che formano la persona. Questi elementi componenti, come si è visto, non sono individuali ma collettivi. Individuale è soltanto la loro combinazione o la scelta di un gruppo già disposto secondo uno schema. Dunque ci troviamo di fronte a un nucleo individuale coperto dalla maschera personale. L'individualità rivela la sua resistenza alla psiche collettiva proprio in questa differenziazione particolare della persona. Attraverso l'analisi della persona conferiamo un maggior valore all'individualità perché così ne accentuiamo il conflitto con la collettività, conflitto che, ovviamente, consiste in un contrasto psicologico nell'intimo del soggetto. La dissoluzione dei rapporti di compromesso delle due parti di una coppia di contrari ne rende più intensa l'attività.

Nella vita puramente inconscia e naturale questo conflitto non sussiste, sebbene la vita puramente psicologica debba soddisfare imparzialmente le esigenze individuali e quelle collettive. L'atteggiamento inconscio e spontaneo è armonico. L'organismo, le sue facoltà e le sue necessità pongono, per la loro stessa natura, le regole e le limitazioni che impediscono ogni eccesso e sproporzione. Ma per via della sua unilateralità favorita da un'intenzione cosciente e razionale, una funzionalità psicologica differenziata tende sempre alla sproporzione. L'organismo costituisce anche la base di quella cne potremmo definire individualità mentale, la quale, in effetti, è un'espressione dell'individualità organica cne non potrebbe mai realizzarsi se non fossero riconosciuti i diritti dell'organismo fisico. Per contro, l'organismo non si può sviluppare armonicamente se non si ammette l'individualità mentale. Inoltre, è proprio nel corpo che un individuo è in maggior misura simile agli altri, per quanto ciascun corpo singolo sia distinguibile da tutti gli altri. Parimenti, ciascuna individualità psichica o morale differisce da tutte le altre, eppure è costituita in modo tale da rendere ciascun uomo uguale a tutti gli altri uomini. Ogni essere vivente che possa svilupparsi individualmente, senza costrizioni, realizzerà, attraverso l'assoluta perfezione della sua individualità, il tipo ideale della specie e, nel contempo, realizzerà un valore collettivo.

La persona è sempre identica a un atteggiamento tipico dominato da una singola funzione psicologica, per esempio dal pensiero, dal sentimento o dall'intuizione. Questa unilateralità è la necessaria conseguenza della relativa soppressione delle altre funzioni. Pertanto la persona rappresenta un ostacolo all'evoluzione dell'individuo. Quindi la dissoluzione della persona è una condizione indispensabile per l'individuazione. Però è impossibile ottenere l'individuazione con un atto di volontà cosciente, perché questo porta sempre a un caratteristico atteggiamento di esclusione di quanto non si confaccia ad esso. Invece l'assimilazione del contenuto inconscio porta a una condizione nella quale l'atto cosciente è escluso e sostituito da un processo evolutivo che ci sembra irrazionale. Solo questo processo significa individuazione e il suo risultato è l'individualità quale è stata or ora definita: ossia particolare e universale nello stesso tempo. Finché la persona sussiste, l'individualità è rimossa e rivela la sua esistenza solo attraverso la scelta di accessori personali; potremmo dire dei suoi costumi teatrali. Solo quando l'inconscio viene assimilato, l'individualità emerge con maggiore chiarezza insieme col fenomeno psicologico che congiunge l'Io al non Io, fenomeno definito con il termine atteggiamento. Questa volta, però, non si tratta più di un atteggiamento tipico, bensì individuale.

Il paradosso di questa affermazione nasce dalla stessa radice dell'antica disputa sugli universali. La proposizione animai nullumque animal genus est rende chiaro e comprensibile il paradosso fondamentale. I realia sono il particolare, l'individuale; però, gli universalia hanno un'esistenza psicologica fondata su un'effettiva rassomiglianza tra i particolari. Dunque l'individuale è quell'elemento particolare che possiede, in maggiore o minore misura, le qualità sulle quali fondiamo il concetto generale di «collettività»; e quanto più è individuale tanto più elevato è il grado di sviluppo di quelle qualità che sono essenziali al concetto collettivo di umanità.

Mi si perdoni l'espressione umoristica con cui intendo illustrare il punto di partenza per la soluzione del nostro problema. Intendo riferirmi all'asino di Buridano tra i due mucchi di fieno. Si capisce che il problema dell'asino è mal presentato. Quel che conta non è stabilire se è meglio il mucchio di destra o quello di sinistra, o stabilire quale mucchio l'asino debba cominciare a mangiare, bensì quale dei due mucchi esso desideri nel suo intimo, verso quale si senta portato. L'asino, invece, voleva che fosse l'oggetto a prendere la decisione al suo posto.

In che consiste, in questo momento e in questo individuo, l'impulso vitale spontaneo? Questo è il problema.

La scienza, la saggezza del mondo, la religione, il più avveduto dei consigli non possono risolvere il problema in vece dell'individuo. La soluzione può venire soltanto da un'osservazione assolutamente imparziale di quei germi psicologici della vita che nascono dalla collaborazione naturale della coscienza e dell'inconscio, dell'individuale e del collettivo. Dove troveremo questi germi vitali? Uno potrà cercarli nella coscienza, un altro nell'inconscio. Però la coscienza è solo una faccia delia medaglia e l'inconscio ne è il rovescio. Non dobbiamo dimenticare che i sogni esercitano una funzione di compenso per la coscienza. Se così non fosse, li dovremmo considerare come la sorgente di una conoscenza superiore alla coscienza e, conseguentemente, noi stessi ci troveremmo degradati al livello di indovini, costretti ad accettare la superstizione in tutta la sua vanità, ovvero dovremmo, attenendoci all'opinione del volgo, negare ai sogni qualsiasi valore.

La funzione unificatrice di cui siamo alla ricerca si trova nelle fantasie creative. Tutte le funzioni che agiscono nella psiche convergono nella fantasia. È vero, però, che la fantasia a una cattiva reputazione tra gli psicologi e, fino ad oggi, le teorie psicoanalitiche l'hanno trattata con lo stesso metro. Per Freud e Adler è soltanto un travestimento «simbolico» delle pulsioni e tendenze fondamentali postulate da loro. In opposizione a queste vedute, occorre mettere in risalto — non su presupposti teorici, ma soprattutto per ragioni pratiche — il fatto che la fantasia, pur potendo essere spiegata con questo meccanismo causale e, quindi, svalutata, rimane pur sempre la matrice creativa di tutto quello che ha reso possibile il progresso dell'umanità. La fantasia ha un suo valore intrinseco e irriducibile, in quanto funzione psichica radicata sia nella coscienza che nell'inconscio, sia nell'individuale che nel collettivo.

Donde trae la fantasia la sua cattiva reputazione? Soprattutto dal fatto che non la si può prendere alla lettera. Intesa concretamente è priva di valore. Interpretata semeiologicamente, come vuole Freud, è interessante sotto l'aspetto scientifico; ma, intesa ermeneuticamente, quale simbolo autentico, assume la funzione di indicatore, fornendoci i riferimenti necessari a condurre un'esistenza in armonia con noi stessi.

Il simbolo non è il travestimento di un elemento generalmente conosciuto. Il suo significato sta nel fatto che esso è un tentativo di illustrare, mediante una similitudine più o meno appropriata, un elemento ancora completamente sconosciuto o tuttora in via di formazione. Riducendo il simbolo, attraverso l'analisi, a un fatto noto a tutti, ne distruggiamo il vero valore, mentre l'attribuzione ad esso di un'importanza ermeneutica è conforme al suo valore e al suo significato.

L'essenza dell'ermeneutica, arte largamente praticata in passato, consiste nell'aggiungere analogie supplementari alla similitudine insita nel simbolo stesso: inizialmente analogie soggettive, che il paziente produce casualmente e, poi, analogie oggettive che l'analista trae dalle sue conoscenze generali. Questo procedimento amplia e arricchisce il simbolo iniziale, il risultato finale essendo un quadro infinitamente complesso e variopinto, i cui elementi possono essere ricondotti ai rispettivi tertia comparationis. Allora verranno messe in evidenza talune linee di sviluppo psicologico, collettive e individuali nel contempo. Non vi è scienza terrestre che possa provare la «giustezza» di queste linee; anzi, il razionalismo potrebbe provare molto agevolmente che sono sbagliate. La loro validità è dimostrata dal grande valore che hanno per la vita, ed è questo che conta nel trattamento pratico, cioè che gli uomini debbono prendere come punto di appoggio la Toro stessa vita, senza che i principi, secondo cui vivono, debbano essere convalidati razionalmente.

Qualcuno, fedele allo spirito del pregiudizio scientifico, potrebbe cominciare a parlare di suggestione, ma noi ci dovremmo esser resi conto da un bel pezzo che una suggestione non è accolta se non è gradita all'interessato. Qualsiasi suggestione inaccettabile è inutile, ché, altrimenti, la cura delle nevrosi sarebbe una faccenda semplicissima: basterebbe suggerire uno stato di sanità. Questo discorso pseudoscientifico sulla suggestione si basa sulla superstizione che la suggestione sia provvista di un'intrinseca virtù magica. Nessuno cede alla suggestione a meno che non desideri, nel profondo del suo cuore, conformarsi ad essa.

Per mezzo del trattamento ermeneutico delle fantasie perveniamo, in teoria, a una sintesi dell'individuale con il collettivo, mentre, in pratica, resta sempre da soddisfare una condizione indispensabile. Una caratteristica essenziale della natura, tendente alla regressione, propria del nevrotico — che inoltre la apprende nel corso del trattamento — consiste nel non prendere mai sul serio né sé stessi né il mondo, nel confidare sempre che la guarigione arrivi, in assenza di qualsiasi collaborazione fattiva da parte del malato, grazie all'opera di un medico (e, più tarai, di un altro medico), grazie all'applicazione di questo metodo, nella tale o tal altra circostanza. Ma non si può lavare un cane senza bagnarlo. Cioè, non è possibile alcuna guarigione in mancanza di una precisa volontà e di un'assoluta serietà da parte del malato. Non esistono cure magiche per le nevrosi. Non appena abbiamo cominciato a individuare, mediante l'interpretazione dei simboli, le tracce da seguire, il paziente deve incamminarsi in quella direzione.

Ma se, ingannando se stesso, egli cerca di sfuggire a questa necessità, si preclude automaticamente qualsiasi possibilità di guarigione. Egli deve seguire, in tutta sincerità, quella linea di condotta vitale che ha riconosciuto come la più confacente per lui, proseguendo nella stessa direzione finché un'inconfondibile reazione inconscia non l'avverta che si trova su un cammino errato.

Chi non possieda questa funzione morale, questa lealtà verso se stesso, non si libererà mai della nevrosi. Ma chi abbia questa capacità troverà certamente la maniera di giungere da solo alla guarigione.

Quindi né il medico né il paziente devono cullarsi nella speranza che l'analisi da sola basti ad eliminare la nevrosi. Sarebbe un inganno e un'illusione. In fin dei conti è sempre il fattore morale che opera la scelta tra malattia e salute.

La costruzione delle «direttive vitali» rivela alla coscienza la direzione continuamente mutevole delle correnti della libido. Queste direttive non vanno confuse con le «finzioni direttive» scoperte da Adler, che sono soltanto dei tentativi arbitrari di separare la persona dalla psiche collettiva portandola a un'esistenza indipendente. Semmai potremmo aire che tale finzione è un tentativo, che non ha successo, di costruire una «direttiva vitale». Per di più — e tanto basterebbe a dimostrare l'inutilità della finzione —, la direttiva delineata in questo modo perdura troppo a lungo, ha la tenacia di uno spasmo.

Invece, la direttiva vitale costruita secondo il metodo ermeneutico è temporanea, perché la vita non segue linee rette il cui andamento può essere predetto con grande anticipo. «Ogni verità è contorta» dice Nietzsche. Quindi queste direttive vitali non sono mai principi generali o ideali accettati da tutti, ma sono atteggiamenti e opinioni dalla vitalità provvisoria. Un declino dell'intensità vitale, una sensibile perdita della libido, o, al contrario, un ribollire di sentimenti, sta a indicare il momento in cui viene abbandonata una direzione per un'altra, o, quanto meno, il momento in cui dovrebbe iniziarsi il mutamento. A volte è sufficiente lasciare che l'inconscio scopra la nuova direzione, ma questo non è un atteggiamento raccomandabile senza riserve, per quanto ci siano in effetti dei casi in cui è proprio questo ciò che il paziente deve imparare, ossia a confidare nel cosiddetto caso. Comunque, non conviene lasciarsi trasportare troppo a lungo; almeno bisogna seguire con occhio vigile le reazioni dell'inconscio, vale a dire i sogni che, come un barometro, denunciano la unilateralità del nostro atteggiamento. ( Nel significato dei sogni non si deve ravvisare alcuna funzione morale, né io suggerisco che vi sia. La funzione dei sogni non è «teleologica» nel senso filosofico della parola, non ha, cioè, uno scopo finale né quello di additare una meta. Più volte ho fatto rilevare che la funzione dei sogni è soprattutto compensatoria, in quanto essi rappresentano gli elementi subliminali riuniti a formare una costellazione tratta dalla situazione momentanea della mente cosciente. In tutto ciò non vi è un'intenzione morale, né alcunché di finalistico; si tratta semplicemente di un fenomeno che, innanzi tutto, dovrebbe essere inteso sotto l'aspetto causale. Però, considerarlo esclusivamente sotto questo aspetto vorrebbe dire far violenza alla psiche. Non soltanto si può, ma si deve considerarlo sotto ilprofilo finalistico — la causalità stessa è un punto di vista — allo scopo di scoprire perche si siano raggruppati insieme proprio quei determinati elementi. Con questo non si vuol dire che il significato finalistico, nel senso di uno scopo dato a priori, preesistesse negli stadi preliminari del fenomeno di cui stiamo parlando. Secondo la teoria della conoscenza, evidentemente non è possibile dedurre, dal senso indubbiamente finalistico dei meccanismi biologici, la preesistente definizione di uno scopo finale. Ma, mentre è giusto abbandonare ogni conclusione teleologica, sarebbe sciocco sacrificare anche il punto di vista finalistico. Tutto quel che si può dire è che le cose vanno come se esistesse uno scopo prefisso. In psicologia ci vuole la stessa cautela nel credere ciecamente alla causalità come nel credere ciecamente al finalismo.)

Dunque, contrariamente agli altri psicologi, io ritengo necessario che il paziente mantenga i contatti con l'inconscio anche dopo la fine dell'analisi, onde evitare le ricadute. Sono convinto che si è veramente arrivati in fondo all'analisi solo quando il paziente ha acquisito una sufficiente conoscenza dei metodi atti al mantenimento dei contatti con l'inconscio e un'intuizione psicologica sufficiente a fargli distinguere il senso della direttiva psicologica valida in un dato momento. In mancanza di ciò, la sua mente cosciente non riuscirà a seguire le correnti della libido né a sostenere consapevolmente l'individualità che ha conquistato. Un paziente che abbia sofferto di una qualunque grave nevrosi dovrà essere agguerrito in questo senso, per mantenere le condizioni di salute.

L'analisi, intesa in questo modo, non è affatto un metodo terapeutico il cui monopolio è detenuto dalla professione medica. È un'arte, una scienza, una tecnica della vita psicologica, che il paziente, a guarigione avvenuta, deve seguitare a praticare per il suo bene e per quello delle persone in mezzo alle quali vive. Se ha compreso questo carattere dell'analisi, non si erigerà a profeta o a riformatore del mondo, ma, con un profondo senso del bene generale, farà tesoro delle conoscenze acquistate durante la cura, e la sua influenza si farà sentire più per mezzo dell'esempio dato dal suo modo di vivere che attraverso elevati discorsi o una propaganda missionaria.

6. Sommario

A.   Dobbiamo dividere il materiale psicologico in contenuti coscienti e inconsci.

1.   I contenuti coscienti sono personali in parte, in quanto la loro validità generale non è ammessa, e, in parte, impersonali, ossia collettivi, in quanto se ne ammette la validità generale.

2.   I contenuti inconsci sono personali in parte, in quanto sono costituiti da materiale personale, inizialmente cosciente, ma poi rimosso, la cui validità generale non sarà, quindi, riconosciuta allorché tornerà ad essere cosciente. Sono, invece, impersonali quando al materiale che li compone è riconosciuta una validità generale, mentre, d'altra parte, non è possibile provare che siano mai stati coscienti, nemmeno relativamente.

B.  Composizione della persona

1.   I contenuti personali coscienti costituiscono la personalità conscia, l'Io cosciente.

2.   I contenuti personali inconsci formano il sé, l'Io inconscio o subconscio.

3.   I contenuti coscienti o inconsci di natura personale formano la persona.

C.   Composizione della psiche collettiva

1.   I contenuti consci o inconsci di natura impersonale o collettiva formano il non Io psicologico, Y imago oggettuale. Questi contenuti possono comparire nell'analisi come proiezioni di sentimenti o di giudizi, ma sono collettivi a priori e identici all'imago oggettuale, vale a dire che appaiono come qualità dell'oggetto e solo aposteriori vengono riconosciuti come qualità psicologiche soggettive.

2.   La persona è un aggregato di contenuti consci e inconsci opposti, quale Io, al non Io. Un confronto generico tra i contenuti personali relativi a individui diversi rivela una stupefacente rassomiglianza, che può perfino arrivare all'identità, annullando in gran parte la natura individuale dei contenuti personali come pure quella della persona. Entro questi limiti la persona deve essere considerata un frammento e anche una parte costitutiva della psiche collettiva.

3. Dunque la psiche collettiva è composta dall'imago oggettuale e dalla persona.

D.    Individualità

1.       L'individualità si manifesta in parte come quel principio che trasceglie e pone limiti a quei contenuti che sono riconosciuti come personali.

2.       L'individualità è il principio che rende possibile e, in caso di necessità, rende obbligatoria una graduale differenziazione della psiche collettiva.

3.       L'individualità si estrinseca in parte quale ostacolo alla funzionalità psicologica collettiva e in parte quale resistenza al modo collettivo di pensare e di sentire.

4.       L'individualità è l'elemento unico e specifico entro una determinata combinazione di elementi psicologici collettivi.

5.       L'individualità corrisponde alla sistole e la psicologia collettiva alla diastole dei movimenti della libido.

E.   I contenuti coscienti e inconsci si distinguono in individuali e collettivi

1.       Un contenuto, la cui tendenza evolutiva è rivolta verso la differenziazione dal collettivo, è individuale.

2.       Un contenuto, la cui tendenza evolutiva è rivolta verso un valore generale, è collettivo.

3.       I criteri, intesi a stabilire se un determinato contenuto è puramente individuale o puramente collettivo, sono insufficienti, perché l'individualità viene stabilita con estrema difficoltà anche se è presente sempre e ovunque.

4.       La direttiva vitale di un individuo è la risultante delle tendenze individuali e collettive esistenti, in ciascun istante, nel processo psicologico.